
In una finale al cardiopalma contro la Turchia l’Italia delle campionesse olimpiche si conferma con il titolo mondiale. Una intensissima prova di una squadra che due anni fa tutti dicevano disgregata: il racconto di quello che l’ha unita
Ha un modo socratico di ammettere di non sapere, Julio Velasco, italiano d’Argentina al contrario, quella sorta di re Mida che trasforma in oro tutti i palloni che le sue squadre di pallavolo toccano: «Molte volte mi domando se i problemi di relazione in una squadra nascono perché non funziona il gioco in campo o se le tensioni fanno sì che non si giochi bene», raccontava il ct delle azzurre dal ritiro di Cavalese mentre si preparava il Mondiale in Thailandia. «Non si può sapere, è l’uovo e la gallina. Ma tutte queste difficoltà di relazione di cui si parlava io non le ho trovate. Ho detto loro: “Non mi interessa se siete amiche, in una esquadra come sul posto di lavoro non si può essere amici di tutti, l’importante è che si persegua un obiettivo comune, poi ognuno fa il suo”. Di queste ragazze posso dire solo più che bene: hanno lavorato al massimo sempre e io non ho fatto niente di che».
Espressione dal profilo basso, per non dire rasoterra, se si considera che in 16 mesi, da quando l’ha presa in mano, la Nazionale femminile – che dopo Tokyo nel 2021 tutti dicevano disgregata – gioca come meglio non potrebbe: ha vinto due volte, l’ultima da imbattuta, la Volleyball Nations League (Vnl), competizione tritatutto che dura un mese con un’infinità di partite, dopo l’oro olimpico a Parigi 2024 e prima del Mondiale 2025, per un filotto di 36 partite vinte consecutivamente.
Quando gli si è fatta notare troppa modestia ha precisato: «Parlavo dell’aspetto relazionale: nel gioco abbiamo fatto molte cose e penso che le giocatrici le abbiano trovate funzionali: abbiamo lavorato sulla ricezione della battuta avversaria, tema che in molte squadre si sottovaluta. Ho cercato di chiedere sempre poche cose e chiare, perché se sono poche è più facile cambiare. Chiedo di cambiare una cosa alla volta, finché non si cambia quello non chiedo altro. Insisto sempre di volere giocatrici autonome e autorevoli in campo: devono saper decidere, non dipendere né da me né da nessun altro».
È il tema che abbiamo sentito nell’ultimo time out a un punto dalla vittoria finale in Nations League quando Velasco, alle ragazze che fronteggiavano una rimonta avversaria, ha ricordato di agire d’insieme, pensando ciascuna al proprio compito, senza limitarsi a mettere nelle mani della schiacciatrice. In quei momenti, di confronto durante le partite, si sentono molto più dettagli tecnici che discorsi motivazionali: «Mi rappresentano sempre come psicologo», spiegava il ct, «ma se il gioco non funziona i bei discorsi non bastano, bisogna risolvere i problemi concreti delle squadre».
«Io mi trovo benissimo con questo approccio tecnico», ha spiegato Alessia Orro, la più forte palleggiatrice al mondo, fulcro della regia del sestetto titolare dell’Italia, chiamata a smistare tutti i palloni e a decidere chi li attaccherà, «mi aiuta a concentrarmi su quello che devo fare. Penso che nella chiarezza dei ruoli e dei compiti ci sia il valore aggiunto: su determinati schemi di gioco o di tecnica, ogni squadra ha un suo sistema e quando si consolida diventa un punto di forza, ma ti deve venire naturale, senza pensarci troppo, e perché questo accada serve chiarezza su quello che devi fare, soprattutto in un ruolo complesso come quello del palleggiatore che richiede esperienza e maturità per essere espresso al massimo. Julio», lo chiamano così, «riesce a trasmetterci calma in modo che restiamo lucide nei momenti decisivi: penso sia molto importante anche in altri settori, quando un capo mantiene la calma e la trasmette, anche il clima di lavoro è più sereno».
Dalla finale olimpica di Parigi in poi, quando Velasco chiese alla squadra di giocarla come una partita uguale alle altre, molte, dalla capitana Anna Danesi alle esperte come Orro, che hanno vissuto precedenti stagioni, alle nuove entrate come Stella Nervini, non fanno che ripetere che se te lo dice lui ci credi, non per poteri taumaturgici, ma per l’enorme esperienza maturata sui campi del mondo: solo chi c’è passato riesce a convincerti che puoi saltare nel cerchio di fuoco senza bruciarti. «Abbiamo lavorato molto sul dimenticare l’errore e guardare avanti al punto successivo», raccontava Velasco. «Dico sempre: “Mai autogiudicarsi. Già dobbiamo giocare contro le avversarie, giocare anche contro noi stessi è troppo. Sono cose che secondo me hanno dato molto risultato. Poi c’è l’avversario, il mondo non esportivo spesso non considera il fatto che non basta fare tutte le cose per bene, bisogna riuscire a farle meglio degli altri. Vincere da una parte dà consapevolezza, dall’altra porta a percepire che attorno tanti pensano che, siccome abbiamo vinto tanto, adesso si va a vincere il Mondiale come se fosse facile: l’obbligo di vincere è pesante, per questo io ripeto loro che non lo abbiamo. Ci piacerebbe tanto vincere, faremo il nostro meglio, ma se sentiamo che gli altri ci mettono un obbligo non dobbiamo ascoltarli».
A sopperire all’imprevisto, che in finale Vnl c’è stato con l’infortunio ad Alice Degradi, ci si allena dando minuti in campo alle riserve, per fare esperienza: «Poi in campo vanno loro», chiosava il ct, «non è merito mio, e se una ragazza ha queste qualità, emergono». Sono certo emerse in Stella Nervini, 22 anni entrata in finale al posto di Degradi: «Da uno a dieci avrei scommesso zero sull’opportunità», racconta Stella, «di giocare una finale Vnl dando un apporto decisivo. Alla fine mi guardavo intorno e vedevo le campionesse che fino a poco prima vedevo in Tv dirmi “brava”, chiamarmi “Stellina” e mi chiedevo se fosse tutto vero. A inserirmi mi hanno aiutata loro, Moki De Gennaro e Myriam Sylla mi danno un sacco di consigli. Fuori sono un po’ timida, a farmi da grimaldello è stata la pallavolo», la lingua comune che annulla tutte le distanze, compreso il mezzo secolo che la divide anagraficamente da Velasco. «Julio? È un giovincello», ride Alessia Orro, «certi giorni è più in forma di noi!».
Articolo uscito su Famiglia Cristiana numero 33/2025
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