Le musulmane: sì allo sport, ma in palestre senza maschi
La richiesta di decine di donne iscritte al corso di italiano nella scuola Bellavitis di Udine est. «Portiamo il velo per scelta. I nostri figli vogliono stare qui. Riconoscete le nostre lauree»
Sono musulmane, laureate, mamme e mogli, integrate a tal punto da chiedere palestre per sole donne. Vivono da decenni nel quartiere di via Riccardo Di Giusto e frequentano il corso di italiano per migliorare la capacità di dialogo con gli insegnanti dei loro bambini, con i vicini di casa, con l’addetto dell’ufficio del lavoro perché queste donne cercano un’occupazione pur sapendo che i loro titoli di studio in Italia non sono riconosciuti.
Questo è uno dei problemi che vorrebbero veder risolvere per completare il processo di integrazione con la città. Una Udine che sa accogliere, ma che sconta ancora l’assenza di alcuni servizi a misura di straniere come le aree riservate alle donne nelle palestre cittadine. Insistono a battersi anche per il riconoscimento della cittadinanza italiana ai bambini stranieri nati nel nostro Paese.
Il nostro viaggio in questa realtà inizia alle 9 di un lunedì autunnale. Entriamo nell’aula situata al piano terra della scuola media Bellavitis e tra i banchi contiamo una ventina di allieve.
In cattedra la maestra Azzurra Cascino dell’associazione “La Tela”, la stessa che, grazie alla collaborazione della scuola, organizza da tempo il corso di italiano per immigrate. Una realtà, questa, poco nota in città nonostante il corso sia ormai collaudato. Parlare con queste donne non è affatto complicato: conoscono l’italiano e non hanno alcuna difficoltà a raccontare le loro storie.
I figli nati in Friuli
«Sono arrivata 14 anni fa per raggiungere mio marito che già lavorava qui, ho quattro figli» racconta Bestandji Khaoula, è lei la prima a soffermarsi sull’importanza del riconoscimento della cittadinanza italiana ai bambini nati in Italia. «È un loro diritto, frequentano le scuole qui, hanno amici italiani, non conoscono niente della nostra cultura, la lingua madre per loro è la vostra».
Khaoula non affronta questo argomento per sostenere la sua causa anche perché i suoi figli hanno già ottenuto la cittadinanza italiana, lo fa perché per effetto della crisi economica alcune famiglie potrebbero essere costrette a rientrare nei paesi d’origine: «C’è chi sostiene che dovremmo farlo, ma i bambini cosa fanno? L’Algeria la conoscono solo perché vanno in vacanza d’estate, non sanno nulla di quella realtà». La pensa allo stesso modo Sabrina Bahloul. «In Friuli i nostri figli non si sentono stranieri».
Il velo
Tutte indossano il velo, ma «non perché costrette dai mariti». Ripetono con insistenza questa frase, non accettano di passare per donne succubi degli uomini. «Portiamo il velo perché ce lo chiede la nostra religione, lo facciamo per amore di Dio» sottolinea Sabrina ben sapendo che quel velo alimenta prese di posizione anche spiacevoli tra gli occidentali.
«Tanti ci chiedono perché continuiamo a portarlo, altri ci dicono chiaramente “andate nei vostri Paesi”. Lo fanno perché non conoscono la nostra religione» insiste prima di soffermarsi sulla figura della suora cattolica che viene rispettata anche se porta il velo. «Le suore che hanno deciso di indossare il velo per motivi religiosi vengono rispettate, come loro anch’io ho deciso di portarlo per lo stesso motivo e quindi pretendo rispetto». E a chi le fa notare che le donne occidentali nei Paesi islamici sono obbligate a portare il velo anche se non sono islamiche, lei risponde: «In Algeria sono libere di non farlo.
Se un musulmano sbaglia non significa che tutti sbagliano. Nei nostri confronti c’è un forte pregiudizio. Quando esco con il velo mi capita di incontrare persone che mi insultano, lo accetto perché sono anziane». Sabrina rifiuta anche il pensare comune secondo il quale sarebbero i mariti a obbligare le donne a uscire velate. «Non è così - ripete - portavo il velo prima di sposarmi. L’ho deciso a 14 anni perché è un obbligo di Dio: all’età della prima mestruazione la donna deve portare il velo».
E per essere più chiara Sabrina ammette di sentirsi in colpa perché non indossa «il velo giusto». A questo punto la domanda non può che essere: «Qual è il velo giusto?». «Quello che non lascia intravedere niente del corpo», risponde.
I profughi
Nessuna di loro è arrivata in Italia da profuga. Però di fronte alle migliaia di richiedenti asilo politico che attraversano l’Europa a piedi non restano indifferenti. «Dispiace vedere persone dormire all’aperto senza coperte, non è facile vivere in un Paese diverso dal tuo» affermano confessando di avvertire spesso la mancanza dell’atmosfera familiare.
«Ci mancano le nostre famiglie, quando torniamo nei nostri Paesi già dall’aereo baciamo la terra». Ma nonostante ciò non pensano affatto di lasciare l’Italia e l’Europa: «Se tornassi mi sentirei una straniera, la mia terra è dove stanno i miei figli» assicura Sabrina trovando ampia condivisione tra le compagne di classe che si rendono perfettamente conto delle difficoltà che sarebbero costretti ad affrontare i loro figli che non parlano l’arabo, se davvero fossero costretti a rientrare».
Il lavoro
Le donne iscritte al corso di Italiano sono tutte laureate. In Sociologia, Economia, Chimica industriale e Ostetricia. Il loro rammarico resta quello del mancato riconoscimento dei titoli di studio conseguiti all’estero e, quindi, di non poter svolgere le loro professioni in Italia. C’è chi frequenta il corso per diventare mediatrice culturale e chi invece fino a quando le condizioni economiche glielo consentiranno si rifiuta di andare a fare le pulizie.
«Non è giusto - ripetono - in Francia e in Germania tutto questo non succede. Lì le donne straniere svolgono le professioni per le quali hanno studiato».
E ancora: «Sono un’ostetrica non posso fare le pulizie, non è il mio lavoro». Le donne iscritte al corso di italiano dell’associazione “La Tela” vogliono migliorare la loro posizione per dare un futuro migliore ai loro figli. Studiano l’italiano per approfondire la cultura occidentale e dialogare meglio con gli altri. Sono convinte che «se sai parlare in un certo modo ti rispettano di più».
Cosa manca in città
Nel quartiere di via Riccardo di Giusto vivono molti stranieri. La maggior parte delle famiglie si sono integrate, tant’è che rispetto a qualche decennio fa quando gli immigrati lamentano la scarsa disponibilità dei friulani ad affittare le case agli stranieri, ora vanno oltre e chiedono più servizi.
«In questo quartiere frequentiamo il mercato, la biblioteca, la posta, ma come donne musulmane ci mancano i luoghi dove poter svolgere l’attività sportiva».
Detta così sembra una richiesta insignificante, ma in realtà non lo è perché le donne musulmane non svolgono attività sportiva con i maschi. Chiedono infatti palestre con spazi riservate alle donne: «Non possiamo accettare di fare attività fisica assieme ai maschi».
Messaggero Veneto
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