Il calcio tragico al tempo del Daesh

Tre calciatori e il loro allenatore decapitati su una piazza a Raqqa, la capitale del sedicente califfato. Con l’accusa “ufficiale” di essere spie dello Ypg, la milizia curda che sta avanzando da est verso la città. Con un tempismo, però, quanto meno sospetto: li hanno uccisi proprio nei giorni in cui il mondo era incollato al televisore per le partite di Euro 2016.

Ha conosciuto un nuovo drammatico capitolo in questi giorni uno dei fronti meno scrutati della guerra che Daesh sta combattendo per il predominio in Medio Oriente: quello che la vede opposta al mondo del pallone. A farne pesantemente le spese è stata questa volta la squadra dell’al Shabab (“i giovani” in arabo), una delle due squadre di Raqqah che fino a qualche anno fa militavano nella seconda divisione del campionato siriano.

Le prime notizie sono cominciate a filtrare a metà settimana scorsa, attraverso l’account twitter @Raqqa_SL, sigla che sta per Raqqa is Being Slaughtered Silently («Raqqa viene massacrata nel silenzio») ed è una delle voci più coraggiose che dalla martoriata città da tre anni ormai nelle mani dei jihadisti riesce a far uscire denunce. Sono stati questi attivisti martedì 5 luglio i primi a raccontare che Daesh aveva ucciso Osama abu Kuwait, Nihad al Husseini, Ihssan al Shawakh - tre giocatori dell’al Shabab - e il fratello di quest’ultimo, Ahmed al Shawakh, che della squadra era l’allenatore. Una notizia accompagnata dalle immagini dei giovani giocatori siriani, compresa quella di rito: in divisa, con la maglietta rossa, prima del fischio di inizio della partita; sullo sfondo lo stadio di Raqqa, un impianto in grado di contenere ventimila spettatori. Ma questo succedeva, evidentemente, prima dell’arrivo di Daesh e della sua lotta a tutto campo al mito del calcio.

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Il calciatore siriano cerchiato è uno dei tre, più l'allenatore, sgozzati dal califfato di Raqqa

Quasi a confermare che l’accusa dei essere spie dei curdi era solo un pretesto dagli stessi ambienti della propaganda jihadista sono poi arrivate le solite terribili immagini dell’esecuzione. Caricate su internet proprio domenica, a poche ore dalla finalissima Portogallo-Francia, giocata nel blindatissimo Stade de France di Saint-Denis, già obiettivo a novembre di un attacco suicida nella drammatica notte del Bataclan.

Non hanno colpito le partite degli Europei, questa volta gli uomini di Daesh. Ma hanno lo stesso preso di mira il calcio. E lo hanno fatto in una maniera - se possibile - ancora più terribile: le immagini mostrano che le esecuzioni dei beniamini di Raqqa sono avvenute davanti a un gruppo di ragazzini, probabilmente gli stessi che affollavano lo stadio per le partire dell’al Shabab.

Una macabra operazione mediatica per attirare l’attenzione durante gli Europei di calcio? Se fosse stata questa la strategia vorrebbe dire che a Daesh stavolta è andata male: pochissima l’attenzione dedicata dai media internazionali a questa storia; ancora meno quella dei vertici del calcio mondiale. Il problema vero, però, è che probabilmente l’obiettivo dei jihadisti era più vicino: parlare ai ragazzi della Siria e dell’Iraq, stroncando la loro voglia di calcio. Cioè l’unico “concorrente” che ritengono serio nella loro squallida operazione di indottrinamento.

Quanto avvenuto a Raqqa, infatti, non è un episodio isolato; si inserisce in una catena di episodi ben precisa. Il 20 gennaio 2015, ad esempio, a Mosul gli uomini di Daesh - in un’altra esecuzione pubblica - uccisero 13 adolescenti. La loro colpa? Essere stati scoperti a guardare in tv la sfida tra le nazionali dell’Iraq e della Giordania in corso a Brisbane nell’ambito dell’Asian Cup. I loro corpi vennero lasciati per ore in piazza perché il messaggio fosse sufficientemente chiaro per tutti.

La colpa non era solo il fatto di riconoscersi nella nazionale coi colori dell’Iraq (in quel caso anche vittoriosa nel derby con la Giordania). È proprio il calcio in sé a risultare indigesto ai teorici dello Stato islamico; distrae dai doveri del musulmano radicale, mettendo in testa sogni di gloria fuori luogo e magari persino l’idea di una partita leale giocata contro l’avversario. Così lo scorso 25 marzo Daesh ha colpito ancora: è successo a Iskanderiyah, una cittadina a maggioranza sciita a una cinquantina di chilometri da Baghdad. Questa volta ha colpito direttamente lo stadio, dove era appena finita la partita ed era in corso una premiazione: un attentatore suicida ha lasciato dietro di sé 29 morti e 60 feriti. Il 13 maggio, infine, hanno colpito a Balad, un’altra città poco lontana da Baghdad, prendendo di mira un luogo simbolo: la sede locale di uno dei tanti club di tifosi che il Real Madrid ha nel mondo arabo. In quel caso è arrivato un commando che ha sparato all’impazzata con gli AK-47: il bilancio è stato di 16 morti e 20 feriti. «Perché questo attacco? A loro non piace il calcio - aveva risposto in quell’occasione al quotidiano sportivo spagnolo As il presidente di quel club di tifosi -. Lo considerano qualcosa di anti-musulmano e alla fine commettono queste atrocità».

In quell’occasione il Real Madrid era rimasto colpito dalla strage, avvenuta a pochi giorni dalla finale di Champions League giocata poi a Milano. E la domenica successiva aveva mandato la squadra in campo con il lutto al braccio. Ma è stato finora l’unico gesto pubblico di solidarietà del mondo nei confronti dei ragazzi siriani e iracheni uccisi per la loro passione per questo sport.

Il gotha del pallone la sente ancora come una questione lontana. Come se l’unico problema oggi fosse garantire la sicurezza degli stadi nelle grandi manifestazioni. Eppure è proprio quello stesso calcio che - per ragioni molto meno nobili - si appresta nel 2022 ad andare a giocare un Mondiale in Qatar. Raccogliere sul serio la sfida di Daesh - dimostrando un po’ di coraggio oltre alla solidarietà verso chi oggi in Siria e in Iraq sogna ancora su un campo da calcio - oggi non potrebbe diventare un modo per dare un senso persino alla Coppa da giocare in casa degli emiri?