BASKET SERIE A Cervi: "Pronto a fare il capitano della nuova Grissin Bon"
REGGIO EMILIA. Li fa cadere uno a uno i luoghi comuni legati ai giocatori, Riccardo Cervi. Nessuna esaltazione, mai un accenno autocelebrativo, i silenzi sempre preferiti al clamore. E un’evidente ricchezza interiore che emerge e che lo fa giganteggiare ben oltre il campo.
Soppesa le parole durante la visita alla Gazzetta di Reggio, ma ce n’è una su cui ritorna spesso: sofferenza.
Perché la carriera del reggianissimo centro della Grissin Bon e della nazionale, 26 anni ancora da compiere, è stata decisamente in salita. Quattro interventi chirurgici, le difficoltà legate al recupero, la fatica di emergere prima in Legadue, poi in serie A, campionato di cui tanti critici “da tastiera” non lo consideravano all’altezza. Una maturazione non sempre lineare, la sua, e in ogni caso non rapidissima, come può capitare ai lunghi. Fino alla consacrazione, lontano da Reggio, la passata stagione giocata in maglia Sidigas Avellino.
La “sofferenza” si stempera però in altro. Tanto altro. Un mondo esterno al basket che fa timidamente emergere ma che si comprende al volo quanto importante sia.
«Ho sempre avuto una marea di interessi - spiega -. Tuttora nella mia vita, c’è tanto altro oltre alla pallacanestro, ed è questo che mi consente di trovare i miei equilibri».
Al basket arriva solo negli anni delle scuole medie.
«Ho iniziato con il calcio: ero il portiere della Fides. Ma giocavo perché lo facevano tutti gli amici, non perché lo amassi particolarmente».
Ispirato dal padre Giovanni e dal cugino Simone, leggenda delle minors reggiane, il passaggio alla pallacanestro a 12 anni. E a ricordarselo oggi, il 12enne Cervi con gli occhialoni e i movimenti ancora da affinare, era davvero tutta un’altra storia. Un paio di stagioni nel Basket 2000, neppure nella squadra principale, senza particolari acuti. Andrea Menozzi, il responsabile del settore giovanile della Pallacanestro Reggiana, però lo nota e lo arruola dopo qualche allenamento.
«Entrai in una struttura in cui si era già trattati da professionisti», ricorda oggi.
La trafila delle giovanili e quindi il passaggio in prima squadra, nella stagione stregata in cui l’allora Trenkwalder si ferma giusto a un passo dal baratro della B. «Fu un passaggio molto difficile. Giocavo poco e dovevo fare i conti con tanti problemi fisici. Fu una stagione di sofferenza, in cui nacquero in me tanti dubbi. Faticavo parecchio in campo e non sapevo se il basket sarebbe stato il mio futuro, tanto che mi iscrissi a scienze dell’informazione, all’università di Modena, per avere un piano B».
La stagione successiva, quella della cavalcata verso la serie A, i dubbi cominciano a dissolversi. «Il gruppo che s’era creato era fantastico. Con i ragazzi che conoscevo dalle giovanili, Germani, Viglianisi e Pini, e i veterani era un piacere allenarsi. Sentivamo l’entusiasmo della città rinascere ed era straordinario. In campo trovai spazi sempre maggiori. Mese dopo mese, acquisii la consapevolezza che il basket era il mio lavoro, tanto che a un certo punto mi dissi: “Ce la posso fare”».
Da lì, dalla promozione che chiuse la fantastica annata 2011/12, un nuovo problematico passaggio, accompagnato da dure critiche. Perché in città in tanti non lo ritenevano all’altezza del massimo campionato.
«La serie A era un altro livello. Faticai moltissimo all’inizio, in più soffrivo a causa di problemi al ginocchio. Ricordo però il bellissimo playoff con Roma».
La stagione successiva il debutto in Europa, in quell’Eurochallenge sollevata poi ad aprile al pala Dozza. «Mi dovetti abituare a giocare ogni tre giorni. In più, il modo di giocare era diverso rispetto al campionato italiano. Fu una bella stagione, anche se poi venimmo eliminati ai quarti da Siena».
Spazi sempre maggiori, Cervi li trova nel campionato successivo, quello concluso a un passo da titolo tricolore.
«Nota negativa fu l’uscita subito dall’Eurocup. Mi fece male, quell’eliminazione. Il campionato fu invece una bella esperienza. Ai playoff rischiammo di uscire con Brindisi ai quarti, poi venne la semifinale con Venezia in cui io ebbi poco spazio. Lo staff mi ripeteva però di farmi trovare pronto, perché sarebbe arrivato il mio momento. Così fu. La serie con Sassari fu qualcosa di magico, anche se finì malissimo».
Nel modo peggiore possibile, con la Grissin Bon che si vide soffiare lo scudo dalla Dinamo, dopo aver avuto ben due match ball per prenderselo.
«Ci penso ancora a quella bomba di tabella messa da Logan da metà campo in gara 6, credo che davvero non la dimenticherò mai», ammette.
Alla maledetta finale scudetto con Sassari, seguono giorni travagliati. Il no al biennale propostogli dalla Pallacanestro Reggiana. Il sì a Milano e, col contratto già in caldo, il rifiuto dell’Olimpia, ufficialmente per motivi legati alle sue condizioni fisiche.
«Fu molto brutto, non lo nego. Trovai assurde le motivazioni che mi diedero, perché io stavo bene. Rancore? No. Non sono una persona rancorosa. Anzi, tendo a farmi scivolare le cose addosso».
Quindi il passaggio ad Avellino, dove ritrova Sacripanti il tecnico con cui aveva conquistato con la nazionale l’argento agli Europei Under 20.
Avellino, un’altra dimensione rispetto a Reggio.
«Volevo provare qualcosa di nuovo. Volevo mettermi alla prova, lontano da casa. Al di là di quello che si pensa, non è facile essere profeta in patria. C’è pressione da parte di tutti, dalla stampa ai social. Io li frequento poco, ma la cattiveria è grande e può anche andare a frenarti, condizionarti. Io, in tal senso, sono molto fortunato. Ho una famiglia fantastica che mi è sempre stata accanto, e i miei procuratori, Maurizio Balducci e Matteo Zuretti, che ci hanno sempre visto giusto, consigliandomi al meglio. Ma se un ragazzo giovane non ha persone così accanto, i social possono anche distruggerlo».
Con la maglia dei lupi irpini, Cervi sboccia. Il gioco della Sidigas ne esalta la caratteristiche. La stagione muore però proprio contro la Grissin Bon nella semifinale playoff al Bigi.
«Non ho ricordi particolari», ammette a distanza di un anno. Poi il ritorno a casa. Alla Pallacanestro Reggiana che gli mette sul piatto un triennale e un ruolo importante.
«Ci ho pensato prima di accettare- rivela -. Tornare a Reggio voleva dire rischiare di ritrovare vecchi fantasmi. Risentire vecchie critiche, perché è difficile scrollarsi di dosso un’etichetta. Ma l’annata ad Avellino mi aveva dato tanto nuove certezze e, attirato dall’idea di rigiocare l’Eurocup, ho firmato il triennale. Peccato che la coppa sia sfumata pochissimi giorni dopo la mia firma».
La stagione, quella appena andata in archivio, non si rivela esaltante. E pure qui la sofferenza non manca. «Abbiamo iniziato bene, poi un paio di sconfitte ci hanno mandato in crisi. La squadra non ha mai avuto una sua solidità di base ed era facilissimo poi perdere fiducia. Il Bigi non era più inespugnabile, gli infortuni e i cambi di giocatori ci avevano reso difficoltoso creare un sistema. Così mentre i nostri avversari sono arrivati ai playoff con solo alcune cose da rifinire, noi dovevamo ancora trovarci. E alla fine penso che Avellino abbia meritato di andare avanti».
Ora il futuro, con quell’Eurocup riconquistata «che, per me, è un grandissimo stimolo». E un ruolo ancora più importante. Quello da capitano di cui, si vocifera, sarà investito ad agosto. Un capitano reggiano, il primo dopo anni e anni. «Ero il vice quest’anno. Vediamo cosa si deciderà. Io sono pronto».
Prima però c’è un’estate azzurra, con un posto nei dodici dell’Europeo da conquistare e la volontà collettiva di cancellare la mancata qualificazione all’Olimpiade. «Era un sogno», ammette.
Ma c’è altro. Tanto altro.
«Non riesco a pensare solo al basket. Mi piace interessarmi di tante cose. Suono la chitarra, elettrica e acustica. Qualcosa mi ha insegnato mio padre, ma sono principalmente un autodidatta. Da un anno ho poi iniziato a suonare la tastiera. Non ho gusti da giocatore di basket (ride, ndr) in fatto musicale. Niente rap o hip hop. Amo il rock, anche moderno e italiano. Poi sono un appassionato di tecnologia e amo mangiare in modo sano. In generale, credo di avere la mente aperta. Sento il bisogno di coltivare anche tante altre cose oltre alla pallacanestro che naturalmente resta il mio pensiero principale. Ho bisogno di isole felici, ancore cui aggrapparmi nei momenti di sofferenza. Fra dieci anni? Mi vedo ancora in campo. Spero tanto di avere una famiglia e di vivere fuori città».
Lontano dal clamore.
Gazzetta di Reggio
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